| Una volta qualcuno mi disse che, affinché una saga abbia successo, deve fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima, o comunque farlo in maniera nuova e più efficace
Anche dopo una seconda lettura rimango dell'idea che L'eredità della spada, pur presentandosi al primo impatto come fantasy classico, genere che si ripete molto spesso, sia qualcosa di fresco, piacevolmente atipico e sorprendente, che omaggia e nello stesso tempo effettua una presa di distanza dai generi di riferimento, semplici modelli al servizio della storia e non griglie in cui rimanere imbrigliati.
È un romanzo fantasy, ma anche storico d'ambientazione medioevale, con elementi magici e soprannaturali, ma anche estremamente realistico; è un romanzo d'avventura, ma anche di formazione, per non parlare di una componente di mistero disciolta tra le pagine. Ma prima di tutto è la storia di Arthur e di una vocazione inseguita con ammirevole tenacia, della ferma volontà di conquistarsi un posto nel mondo, in un mondo (quello fantasy) dove molto spesso sono gli eventi a trascinare il protagonista al di fuori del suo nido e non il contrario. Una "vocazione", non un banale sogno ad occhi aperti o un comune desiderio di riscatto: si tratta di qualcosa di più intimo, più profondo, più impellente, fonte di un disagio e un'inquietudine interiore su cui è gettata una luce penetrante. Arthur non è un sognatore, non è un romantico, è un personaggio certo animato da ardore, coraggio e un pizzico d'incoscienza, ma anche con i piedi per terra, con un'ambizione elevata, ma alla sua portata, con una quieta e lucida determinazione che lo rendono normale ed eroico allo stesso tempo.
Alla sua storia, piano, gradualmente, si aggiunge quella di altri personaggi, tra cui spicca quello di Gwinneth, una giovane donna combattente dal carattere fiero e orgoglioso, ma che in fugaci istanti di cedimento lascia intravedere una personalità tormentata e ricca di sfumature. Per me il personaggio più affascinante del romanzo, sorprendentemente magnetico e vibrante per essere uscito dalla penna di un'autrice esordiente.
La trama è semplice e lineare, quasi scarna, composta da pochi momenti chiave a cui si arriva con un percorso placido e riflessivo. A rendere la lettura di tutte le 600 e più pagine avvincente e appassionante io dico che sono essenzialmente due qualità...
La prima, come un po' si sarà evinto da quello che ho scritto sopra, è l'introspettività. È abbastanza raro in romanzi dei generi sopra elencati un simile approfondimento psicologico dei personaggi, di cui invece in questo caso sono messi a nudo così sensibilmente stati d'animo, turbamenti, e angosce, siano essi sistematicamente analizzati, siano invece qualcosa di più ineffabile e misterioso, affrontato per rapide pennellate nel corso del romanzo. Così, la storia ambientata in un lontano Medioevo di fantasia si avvicina tantissimo al lettore per mezzo di personaggi molto umani, a tutto tondo e in cui non è difficile immedesimarsi.
La seconda qualità, che può essere in realtà un'arma a doppio taglio, è la prosa ricca, corposa, avvolgente, dal gusto cinematografico per la ricchezza di dettagli, che permette di visualizzare ambienti e personaggi anche nei loro aspetti più minuziosi: un'espressione, un movimento, un materiale, una luce, un colore. È una prosa che colpisce per la proprietà di linguaggio, la precisione lessicale, la nitidezza, la capacità di immergere a 360 gradi il lettore in un'atmosfera viva e palpitante. Talvolta risulta un po' iperdescrittiva, specie quando il ritmo rallenta o ad esempio anche nel prologo, uno dei miei passi preferiti in assoluto del romanzo, ma in cui, rileggendolo a posteriori, il pathos del momento è reso con una certa ansia descrittiva. Nel bilancio complessivo però la scrittura è così elegante ed immersiva, curata ed esatta, che personalmente mi appaga moltissimo e mi fa assaporare ogni singola parola e dettaglio della storia.
Passando dalla lettura del secondo capitolo a questo, noto con piacere uno stacco: questo primo capitolo della saga è ancora in alcuni momenti un po' troppo rigido e formale, soprattutto nella prima parte: una ricerca di correttezza e del bel periodo fa perdere un po' in spontaneità e immediatezza, e questo anche considerando il modo d'esprimersi d'altri tempi, formale e cortese che in generale nel romanzo si cerca di ricalcare. Talvolta quando parlano ladri e banditi, o anche lo stesso Arthur, si ha una sensazione di artificio. Ma sono tutti aspetti che sono sicura verranno limati con il tempo e, anzi, andando avanti nel corso del romanzo sia la narrazione sia i dialoghi mi sembrano acquistare maggiore naturalezza. Sono sicura che chi avrà modo di leggere il secondo romanzo su questo punto di vista ne rimarrà piacevolmente colpito.
Per quanto riguarda la storia e i suoi personaggi sono entusiasta Se nel corso della prima lettura ero perplessa dal comportamento di alcuni di loro, che mi veniva da attribuire a una certa volontà di piegare la trama verso esiti un po' improbabili nel contesto, ad una seconda lettura mi sono accorta di come nulla sia stato lasciato al caso, di come ogni minima reazione o comportamento insolito faccia parte di un ritratto coerente del personaggio, che è assolutamente appagante ripercorrere alla luce di nuove conoscenze.
Io mi sono fatta questa teoria sul comportamento di Rayleigh, Gwinneth e Hiram (ma già alla prima lettura) e con questo rispondo indirettamente ad alcune questioni sollevate da Annachì....
Non è che Hiram o Rayleigh abbiano sovrapposto la figura di Arthur a quella di Garreth, nè per lenire i sensi di colpa come sostiene Gwinneth, nè per una simpatia dettata da una somiglianza caratteriale e magari anche fisica. Secondo me infatti i due uomini hanno ormai elaborato il lutto, hanno relativamente fatto pace con se stessi e il loro inconscio non gioca più brutti scherzi. Hanno invece cercato, forse un po' maldestramente, di aiutare Arthur per aiutare Gwinneth, individuando nel giovane una figura "terapeutica" (ma distinta da Garreth) per la ragazza. Rayleigh forse l'ha fatto con maggiore leggerezza, quasi come esperimento, come sfida, oltre che per un'istintiva simpatia per il ragazzo. Il padre di Gwinneth, invece, probabilmente ha colto nell'interessamento della figlia per la sorte del ragazzo uno spiraglio di luce straordinario e incomprensibile e che meritava di essere alimentato. Mi viene molto difficile pensare che Hiram abbia facilitato ad Arthur il percorso per diventare cavaliere, trattenendo Gwinneth a Lokrid, solo perché ha individuato nel ragazzo del talento, o perché gli ricordava Garreth. Sicuramente è stato particolarmente disponibile e comprensivo perché addolcito dal ricordo del figlio, e su questo Rayleigh non si sbagliava, ma sicuramente pensava che, attraverso Arthur, avrebbe potuto far breccia nella corazza della figlia. D'altra parte Gwinneth è così tormentata e sconvolta perché la presenza di Arthur, inconsciamente, e il comportamento di Rayleigh e di suo padre, hanno risvegliato un trauma che credeva superato. Trovo credibile che, nonostante sia passato tutto quel tempo, ci sia ancora una ferita aperta, per via del carattere della ragazza, per il legame viscerale instaurato con la persona perduta, ma soprattutto le circostanze e la giovane età di Gwinneth al momento della morte del fratello rendono credibile che sia rimasto un segno indelebile. Devo dire che tutto il contesto è studiato talmente bene che, nonostante non abbia mai vissuto un lutto così doloroso come può essere la perdita di un fratello, mi sono immedesimata moltissimo in Gwinneth e l'ho capita.
Anche il comportamento dei vari personaggi dopo l'investitura mi è parso verosimile. Rayleigh, e qui sono d'accordo con Arthur, è un codardo: non vuole incrinare il rapporto di fiducia che ha costruito con Gwinneth, anche se questo significa andarle contro per difendere il povero Arthur. Si è anche visibilmente pentito per essersi messo in mezzo ad una questione tanto delicata. Gwinneth d'altra parte esercita su tutti i personaggi un'influenza fortissima, anche sul padre, che probabilmente si anche è reso conto della possibilità di aver forzato un po' troppo le cose, di aver investito Arthur con un po' di leggerezza e per questo si fa da parte. Gwinneth poi è furibonda con tutti perché l'hanno messa in una situazione scomoda, credendo di agire per il suo bene, ma con una certa presunzione, ma anche perché si rende conto di quanto Arthur sia stato "usato". Per quanto i suoi modi siano discutibili (e la rabbia con cui conduce Arthur all'esasperazione e quasi alla morte sia del tutto riprovevole) è il personaggio che più stimo all'interno della vicenda perché, paradossalmente, sembra quasi pensare al bene e al futuro del ragazzo forse più di chiunque altro. Tutto questo papiro di analisi psicologica dei personaggi che ho scritto sotto spoiler è indice di quanto stimolante sia stato il libro da un punto di vista della caratterizzazione dei personaggi.
Ecco, l'unico personaggio che sia ad una prima sia ad una seconda lettura, mi è parso troppo sacrificato è stato Maelin. Non perché avrei voluto avesse un ruolo più importante in un capitolo dove già abbiamo diverse presenze "ingombranti", ma perché purtroppo in questo capitolo rimane abbastanza piatto e stereotipato nelle sue reazioni, quasi sempre contrassegnate da un'eccessiva sensibilità. Rayleigh invece è un personaggio che amo, riuscitissimo e assolutamente divertente, e che riesce a risultare ironico, ma mai forzato, e a stemperare perfettamente con le sue battute un clima di tensione. Per concludere la carrellata sui personaggi, tralasciando Gwinneth su cui ho detto già abbastanza, Arthur è un personaggio che attira su di sé nel corso della narrazione gli stereotipi del ragazzo ingenuo di villaggio che dev'essere iniziato non solo all'arte della spada, ma alla vita vera e propria. In realtà, nonostante a volte la sua ingenuità sia un po' amplificata, in maniera comunque tenera e divertita, ha una personalità così forte, ma soprattutto in evoluzione così continua e tangibile durante il corso della storia, che forse da questo punto di vista è il personaggio più scontato e più soprendente al tempo stesso del romanzo. Bazil Boone, altro personaggio di un certo spessore, incarna invece più il cliché del maestro estremamente saggio e severo, ma anche qui la sua ironia e la sua fragilità sono così autentiche che ancora una volta si tratta di un personaggio che lascia un suo segno tutto particolare e malinconico. Il suo aneddoto sul sidro del cugino poi è uno dei punti più belli, sentiti e memorabili del romanzo.
Ancora qualcosa prima di concludere. Un'altra qualità molto interessante del libro è il rapporto con il soprannaturale. Solitamente la credenza in un mondo soprannaturale in un fantasy è scontato, mentre in questo caso no. Ci troviamo infatti all'interno di un mondo molto umano con elementi soprannaturali, tra cui un personaggio che usa la Magia, una divinatrice e una profezia, credenze sul mondo dei morti, a cui però alcuni personaggi non credono o stentano a credere. Le digressioni in cui si ragiona sul soprannaturale, senza dare nulla per scontato, introducono gradualmente il lettore verso l'accettazione di un mondo fantasy, lasciando però permanere una componente di ambiguità e mistero su di essa che sono molto umani. Tra le altre cose ho trovato delizioso il fatto che l'episodio della divinatrice venga spogliato della sua solennità (attribuitagli dal punto di vista di Arthur) qualche capitolo più avanti, quando personaggi più scaltri e navigati di Arthur mostrano un divertito scetticismo nei suoi confronti. Nel secondo romanzo questo rapporto diventerà ancora più interessante tanto da stimolare il lettore a riflettere sul soprannaturale.
Il cliffhanger finale ha fatto arrabbiare anche me, ma mi ha fatto anche capire quanto tenessi ai personaggi e questa era ovviamente una cosa molto positiva (ma in generale io non sono contraria ai cliffhanger, anzi, ammetto che masochisticamente mi piacciono molto). Credo che tutta la parte dopo l'investitura alimenti la tensione in maniera eccezionale e forse per questo è la parte più intensa del romanzo (insieme al prologo), anche come dialoghi e sfoghi dei personaggi, molto serrati e l'ho letta quasi trattenendo il fiato.
Un dubbio, una curiosità: ci viene detto poco sui cavalieri ai tempi del romanzo... in particolare il dubbio è questo: c'è un punto in cui Rayleigh dice a Gwinneth, molto contraria riguardo al portare Arthur al cospetto di suo padre, che appunto costui l'avrebbe perdonata se gli avesse portato un aspirante cavaliere, come se fosse qualcosa di straordinario e come se fosse del tutto accettabile interrompere una missione per procurare al proprio regno un aspirante cavaliere. È proprio così rara l'eventualità che si presenti a un sovrano/governatore un aspirante cavaliere o la rarità è il fatto che sia sua figlia a presentarglielo? Quando Boone parla di addestramento di cavalieri parla di tempi lontani?
Direi che per il momento può bastare, al massimo mi attaccherò ad altri commenti. Credo che si sia capito ormai che, nonostante qualche osservazione critica, sono assolutamente entusiasta del romanzo e sorpresa per la sua qualità, la sua maturità, la sua eccellente scrittura, la sua capacità di rendere i personaggi a tutto tondo, tenendo conto tra l'altro che stiamo parlando di un'autrice esordiente. Forse sì, un po' di stanchezza nella seconda parte l'ho avvertita anch'io perché il ritmo rallenta, perché a livello di trama si aspetta un esito tutto sommato annunciato e i personaggi non variano tantissimo il loro atteggiamento. Però devo dire che nel bilancio complessivo questo passa in secondo piano, che la lettura rimane sempre appassionante e meritevole. E che sono entusiasta del nuovo capitolo e sono fiduciosa nel proseguimento della saga!
P.s. rileggendo il libro non ho trovato (o forse la mia mente ha di nuovo rimosso! indizi sul fatto che Rayleigh sia un prestante, magro, atletico giovane biondo; per cui credo che continuerò a immaginarmelo come massiccio, imponente, moro e con un codino sulla sommità della testa! )
Edited by ~alyps~ - 16/3/2016, 14:32 |
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